IN UN’ ARIA DI VETRO

Lezione del 23/10/2013

I temi affrontati nell’incontro di venerdì scorso sono concentrati in magistrale forma poetica in questi versi di E. Montale in cui l’autore pare voler trasmettere il potere delle IMMAGINI e il senso autentico della meditazione:

FORSE UN MATTINO
ANDANDO IN UN’ARIA DI VETRO, ARIDA
RIVOLGENDOMI VEDRÒ COMPIERSI IL MIRACOLO,
IL NULLA ALLE MIE SPALLE
IL VUOTO DIETRO DI ME.
CON UN TERRORE DI UBRIACO POI,
COME SU UNO SCHERMO SI ACCAMPERANNO DI GITTO,ALBERI,CASE,COLLI
PER L’INGANNO CONSUETO.
MA SARÀ TROPPO TARDI
E IO ME NE ANDRÒ ZITTO TRA GLI UOMINI CHE NON SI VOLTANO
CON IL MIO SEGRETO.

Un “corso di yoga” dovrebbe poter stimolare i suoi frequentatori a sviluppare l’ intenzione di restituire al mondo, direbbe J. Baudrillard, la sua ” illusione radicale”, attraverso la percezione, esistenzialmente accolta, della sua essenziale misteriosità.
Come vi immaginate vi possa essere possibile accogliere questa singolare sfida di cui, tra l’altro, un insegnante di Yoga dovrebbe poter esser capace d’immaginare modalità e strumenti d’ offerta?
Vi suggerisco a tal proposito di concentrarci insieme sulla possibilità che non esista mai una  corrispondenza esatta  tra cio’ che è da noi effettivamente percepito e la rappresentazione mentale che subitaneamente ne sviluppiamo.
In questa controintuitiva prospettiva analitica della questione che vi propongo stasera il mondo appare come una nostra rappresentazione
Ora, una delle più ricorrenti proposte delle variegate tradizioni spirituali e religiose umane è quella di uscire dal mondo , di essere nel mondo ma non di questo mondo. Le formulazioni al riguardo posson essere davvero disparate ma in buona sostanza veicolano lo stesso senso.
USCIRE dal mondo è possibile intersecando contemporaneamente due interpretazioni prospettiche riguardo il rapporto esistente tra percezione  e cognizione umana.
Iniziamo in tal senso a considerare il fatto che ordinariamente consideriamo il mondo, in tutte le sue manifestazioni tangibili, come un’ entità ( non uso a caso questo termine poichè vorrei veicolarvi  già ora surrettiziamente il senso dell’ eterità  della cosiddetta “realtà “) a noi esterna.
A questa “sensazione” si associa inevitabilmente quella di interpretare il vissuto emotivo e cognitivo come processi interni e propri  Dal convergere di queste due prospettive deriva quella sorta di “psicologia ingenua” che domina l’esperienza personale del mondo di ciascuno facendoci percepire come soggetti, di fatto autonomi  ed autoimputantesi  la volontà  d’agire nel mondo , che percepiscono oggetti a cui si riconosce statuto di realtà /esistenza per il semplice fatto di appunto percepirli. Insomma, interpretiamo tutti il personaggio di S. Tommaso in qualche misura!  Dopotutto la cosa puó non sorprendere proprio perché é tutto sempre questione di fede! Infatti occorre considerare quanto la percezione sia sempre sostenuta  dalla cosiddetta “fede percettiva”. Un facile esempio di che cosa si intenda per essa lo si puó desumere nell’ordinaria esperienza del camminare lungo le vie di una città. Lungo il tragitto i nostri sguardi si posano sulle facciate dei palazzi mentre noi deambulanti presupponiamo costantemente e inconsciamente che dietro le facciate esista sempre una volumetria alle loro spalle. Di fatto quest’ultima potrebbe anche non esistere. Questo fenomeno mentale dimostra come la percezione si sviluppa come una sorta di costante ricognizione di ciò che é stato consuetudinariamente percepito in passato. Al contrario il cosiddetto ” yoga prathyakşa”, ossia la sensibiltá percettiva yogica , presuppone i sensi come porte aperte su un affaccio che vede l’ armonia cosmica come proprio orizzonte. I sensi, in prospettiva yogica,  non inducono mai una rappresentazione mentale perfetta , ossia che significhi equivalenza del percepito con la rappresentazione oggettiva di quest’ultimo. Ciò significa che lo yogin vede sempre tutto magico, incarnazione di mistero. Egli intuisce che le cose non restituiscono mai di sé stesse ciò che ci si aspetterebbe da loro. Egli sa che non possono farlo, nella misura in cui la percezione é sempre cognitivamente mediata.
É interessante che voi notiate  a tal proposito quanto i Maestri spirituali facciano vedere questa realtá di fatto agli allievi proponendosi loro sempre e del tutto  artificiosamente ( di fatto recitando), in modo tale da sfuggire ad ogni loro previsione Questa recita può far, potenzialmente in qualsivoglia momento, cogliere la realtà di fatto di come si realizzi il rapporto tra cognizione e percezione. Il carattere illusorio del mondo fenomenico, di fatto colto da tutte le tradizioni spirituali, risiede dunque nella rappresentazione cognitiva della realtà percepita, il cui effetto altro non è che la generazione/ definizione di quel feticcio imagologico  che é appunto la “realtá oggettiva”. Accogliere come illusorio il mondo , nella consapevolezza che in quanto esseri senzienti e coscienziati l’illusorietá del percepito sia per noi inevitabile, coincide con il riflettere ( pensate alla riflessione tipica dello specchio) il mondo stesso ” così come è ” . In buona sostanza questa  formulazione discorsiva tipica dello Zen , vuole indicare il vedere in filigrana il mondo senza l’ausilio di alcuna nominazione. In tal senso quel che é stato definito in ambito filosofico contemporaneo come l’innominato innato diventa dunque per il meditatore lo sfondo costante ed indistinto , detto anche totalità,  su cui si stagliano le immagini  del mondo processate dal cervello. Al punto d’articolazione del discorso a cui siamo ora giunti è importante intuire come la realtá oggettiva svanisca quando desoggettivata ,ossia non più sostenuta dal “senso dell’IO “, il famoso asmita patanjaliano che ben conoscete. L ‘IO è un ladro di immagini che in realtá appartengono solo a se stesse ma di cui egli vuole sempre appropriarsi per costituirsi, agli occhi di sé  stesso, come entità esistente e sostanziata. Dire che le cose, una volta riportate alla loro essenza immaginale, appartengono a loro stese equivale appunto a dire che le cose sono ” così come sono“. Vivere questa consapevolezza nell’ immediatezza della percezione penso possa dirsi  il SAMADHI. Non dimenticate al proposito il famoso aforisma Zen ” il nirvana é il samsara  e il samsara è il nirvana” . Quando in samadhi, l’ uomo vede il mondo, sè stesso incluso, come una danza di immagini che fluiscono, in ritmica epifania e dissolvenza, ispirate da Bellezza. Limmagine, anche quella dell’ io, si genera da sè, assecondando Il bisogno di Bellezza di esprimersi. Hillman diceva che le immagini sono “eidola“, per appunto identificarle con gli Dei !
Il risvegliato vede infatti il mondo Sacro perché vede Bellezza ovunque. Ma attenzione, non trascurate assolutamente il fatto che l’atto del fluire implica necessariamente lo svanire, ossia l’ impermanenza oltreché l’ insostanzialità radicale di qualsivoglia ente. Il problema alla base delle difficoltà  di metabolizzazione di questa insolita visione, sempre intuitiva, risiede in quello che potremmo considerare il nostro peccato originale, ovverosia la nostra superficialità. Infatti, quando aleggia l’intuizione di quanto tutto appaia illusorio in virtú della costituzione stessa  del sistema nervoso umano, ci si riaddormenta non facendo altro che spallucce ad una presa di coscienza che rimarrá momentanea. In altre parole non si sviluppano , non accadono, conseguenze esistenziali perchè non ci si impegna seriamente nell’opera di rimozione degli ostacoli che si frappongono al compimento autonomo di una metabolizzazione coscienziale integrale della suddetta intuizione. Occorrerebbe sviluppare invece una disciplinata metodica d’esercizio capace di far sì che maturi un’ agile disposizione al mantenersi costantemente ancorati, durante lo sviluppo del contatto imagologico ed egologico con la realtà, alla consapevolezza del processo cognitivo in atto e che presiede alla fabbricazione delle immagini mentali a partire dall’ esperienza empirica.  In altre parole occorre un sadhana una grande e spontanea disponibilità al sacrificio, alla concentrazione, alla subitanea osservazione della processualità mentale, che sviluppa oggettivazione soggettivazione, nell’istante del contatto percettivo!
Per superare l’ inevitabile resistenza egotica occorre appunto questa lucida, attenta e spietata osservazione che Patanjali chiama “viveka“, con questo termine ad indicare proprio una sorta di appostamento strategico sulla soglia dei sensi per cogliere in atto i processi mentali dell’ oggettivazione e della conseguente soggettivazione
Ovviamente per compiere questa sorta di agguati nei confronti del matrix mentale  ci si deve ben attrezzare; serve un viveka darshana per affrontare un problema che è davvero complicatissimo se si pensa che nemmeno le tradizioni yogiche paiono proprio state in grado di trovare ragione dello straordinario potere “anestetizzante ed abbacinante” di Maya, o forse sarebbe qui meglio dire di avidya. Ecco perché Patanjali ammonisce che questo sforzo controintuitivo debba essere protratto “per lungo tempo, senza interruzioni e con il dovuto ossequio” !
Allo stesso tempo egli suggerisce di allenare viveka iniziando a scardinare le roccaforti dell’egoità (da non confondersi mai con l’egoismo!), ossia le  abitudini, le compulsività comportamentali attraverso le quali perpetuiamo il racconto di noi stessi a noi stessi
Sotto questo profilo dunque, i famosi primi due  anga  dello Yoga Patanjaliano, che nessuno mai esercita (guarda caso!), devono esser accolti come espedienti di spersonalizzazione cui consegnarsi mai dimenticando  ciò che li giustifica!
In caso contrario infatti non faremmo altro che alimentare la “forza di volonta” dell’IO titanico che sull’ onda entusiastica della sua stessa arroganza puó giungere addirittura ad ambire alla sua illuminazione  ! Credo proprio che la forza di volontà sia davvero un veleno per il meditatore! Se pensate di poter davvero esercitare ahimsa o brahmacharya  affidandosi alla vostra volontà state facendo il tragico errore di dimenticare che la volontà stessa dipende dalle circostanze ambientali in modo così stringente ed essenziale che si può ben dire che di fatto non esiste una facoltà di autonoma volizione umana. Vi ricordo al proposito che quest’ultima affermazione ripropone fedelmente uno dei presupposti teorici fondamentali del Samkhya, che ben sapete costituisce a sua volta l’orizzonte filosofico-teoretico cui Patanjali si rivolge per modellare il suo Yoga, ovvero il suo particolare metodo per ” uscire dal mondo”, che a sua volta è l’altro modo di dire il Samadhi.
In buona sostanza “uscire dal mondo ” significa dunque vivere la profonda intuizione che quello che si avverte come esterno è una  proiezione mentale  e dunque che, se la mente la si considera rispetto a noi stessi ” interna” ,  in realtá tutto è ” interno”. Allo stesso tempo questa intuizione implica che quello che ordinariamente si considera a noi “interno “,  ossia Il vissuto emotivo e cognitivo nella sua interezza , in realtà sia a noi  ” esterno “, nella misura in cui l’IO è immerso nelle onde affettive in quanto loro stesso effetto ultimo. In termini patanjaliani si dice appunto che Asmita è un aggregato imagologico  generato dalla vorticosità dei Guna, ossia dei costituenti elementari della realtá fenomenica. Tralasciando se l’affermazione che sto per farvi possa considerarsi valida sotto il profilo strettamente teoretico del Samkya, cioè della tradizione “filosofica” indiana incentrata appunto sui Guna e loro effetti in prospettiva cosmogonica e quant’altro, vi suggerirei di non considerare i Guna come aggregati elementari della materia ma come una sorta di ipostasi che derivano, per inferenza logica, da una di per sé particolare visione  del mondo.
Tornando ai due aspetti opposti e convergenti dell’intuizione di cui sopra, vi ricordo che J. Hillman, un gigante della psicologia contemporanea, ha spesso sottolineato il potere terapeutico della consapevolezza che ” PSYCHÈ SI TROVA FUORI DI NOI“. Certamente questa affermazione apparirà del tutto bizzarra, se non proprio folle, se ci si dimentica la premessa che fa da necessario e logico corollario ad essa, ossia che la realtà “oggettiva-ta ” altro non è che una proiezione mentale , frutto di sempre arbitrarie significazioni, di fatto confinata all’interno di noi stessi e, badate bene, non solo all’ interno della scatola cranica, ma in ogni cellula di quel corpo che tanto amiamo dire nostro!!
Occorre assolutamente fare attenzione a non confondere la psiche con l’io, proprio perchè l’affermazione di cui sopra implica che l’io sia un prodotto della psiche. Capisco che ci risulti quantomeno assai imbarazzante e molto fastidioso ma purtroppo siamo chiamati, in quanto meditatori, ad accogliere il proprio il punto cruciale dell’esperienza meditativo, ossia che l’ io è un pensiero, nulla di più, nulla di diverso di un’immagine pensata dal pensiero!
In tal senso possiamo davvero dirci esseri di luce , proprio perché siamo fatti di luce, della stessa luce che tanto ha sempre affascinato gli yogin, ossia la luce che illumina i sogni. Trattasi di una luminescenza che potremmo dunque considerare la natura stessa della coscienza umana. Il fatto poi che anche il “nostro” corpo fisico, in quanto materia organica, altro non sia che luce solidificata rende la nostra esistenza, in tutte le sue proprie articolazioni, davvero un fenomeno straordinariamente magico cui abbiamo il dono di partecipare solo a patto che la  pura facoltà di riflessione  coscienziale sia del tutto isolata dalle interferenze della discorsività  mentale egologica. In altre parole occorre quello yoga, quel metodo, orientato a quello che Patanjali definisce nei suoi Yoga Sutra ” CITTÀ VRITTI NIRODHA“.
L’ io, cognitivamente assimilando come entità solide quelle che sono eteree configurazioni figurali di luce  , processate dal cervello a seguito del contatto percettivo e trasferite sullo schermo mentale, non fa altro che entificare sè stesso ! Il famoso “cogito ergo sum”, in questa prospettiva che certamente non è la stessa del buon Cartesio che ad altre conclusioni voleva orientare, riassume bene l’esito finale del processo di cui sopra.
Pensate, l’ io immaginale, fatto di luce solidifica se stesso, cioè si auto-soggettivizza oggettivizzando forme immaginali mentali, il tutto attraverso un compulsivo soliloquio discorsivo tra sé e…un altro sé ! Si perchè pensare, a queste condizioni date, è un ” dire a se stessi”, un folle “parlare tra noi e noi”. Ecco evidenziarsi ora chiramente la follia  di cui tutti i Maestri spirituali ammoniscono sia malato l’essere umano ordinario! Ecco allora diventare comprensibile come l’esperienza meditativa sia da loro promossa come la terapia perché ci possa accadere  di ritrovarci a riflettere  ossia a parlare con nessuno, soli, e di nessuno  senza cioè nominare , significare il percepito. L’io IMMAGINALE si recupera assoggettando (forse in questo consiste il senso dello sforzo violento  nascosto nell’etimo della parola Yoga) l’ordinario “senso dell’io” alla dimensione del sogno, per dissolverlo in una dimensione onirica.
È per questo motivo che vi ho sempre proposto di ” stare in asana” ,ossia di interiorizzare la postura amplificando l’ enterocezione  in modo tale che si sviluppi la sensazione di vivere la posturalità come foste immersi in un sogno.
Riecheggiano a questo punto le poetiche parole oniriche di Montale ” rivolgendomi vedrò compiersi il miracolo, il nulla alle mie spalle il vuoto dietro di me
Siamo dunque chiamati, dalle tradizioni spirituali e meditative, all’imbrobo compito di rivolgerci, di non prestare più fede a quella “sensazione profonda” che l’egoità sia un ente dotato di una “natura propria”, di una “swabhava” in termini sostanziali. Tale convinzione pre-conscia è proprio la risultante del processo di entificazione scatenato da ogni significazione discorsiva.
Il linguaggio non è, come del tutto superficialmente spesso si crede, uno strumento attraverso il quale l’uomo comunica a piacimento ma è una facoltà che genera l’immagine dell’uomo a se stesso permettendogli allo stesso modo di creare il mondo, letteralmente “intorno a lui” . Come vedete, Banca Mediolanum non si è inventata proprio niente!
Certamente ci assalirà il ” terrore di ubriaco”, cioè si esperirà il brivido dinnanzi all’abisso.
Ma ” forse un mattino”, seduti sul nostro zafu, “sarà troppo tardi per il consueto inganno”, perché quando ” come su di uno schermo di gitto si accamperanno alberi, case, colli”, le immagini, noi ce ne ” andremo zitti tra gli uomini che non si voltano” con il “nostro segreto”.
Questo maldestro tentativo di parafrasare Montale per parlare di meditazione, non può concludersi senza sottolineare un dettaglio che, in questa particolare prospettiva analitica, assume straordinaria importanza. Il poeta indica un’ esperienza che si realizza ” in un’aria di vetro” , il che lascia presagire il tutto avvenga in un’atmosfera in qualche modo “algida”, “cristallina” , quasi a rimarcare come occorra si sviluppi una “atmosfera interiore” priva delle affettività, dell’ emotività mentale. Lo spirito infatti è “freddo”, nella misura in cui è “limpido” per poter ” riflettere” come uno specchio. Cosa pretendiamo infatti da uno specchio se non che sia sempre lindo di modo che rifletta senza distorsioni la nostra stessa immagine. Non a caso nella tradizione Zen il seggio dedicato alla meditazione viene indicato col termine “Zafu”, letteralmente traducibile ” trono di diamante”; e non a caso anche Patanjali utilizza l’immagine del diamante per spiegare statuto ed effetti della “sospensione della vorticosità” commotiva di “CITTA“. La trasparenza totale è sinonimo dunque di distacco, ovverossia di quel totale coinvolgimento nella realtà che deriva dall’aver compreso come funziona MATRIX, LA Realtà con la R maiuscola.
Al proposito vi lascio con le parole di Patantali: ” Abhyasa vairagya abbiam tan nirodha“…
Grazie per la pazienza e l’attenzione.

 

 

 

 

 

 

 

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